Un registro sulle DAT serve solo

ad introdurre l'eutanasia

nella mentalità comune

Il primo giugno il nostro arcivescovo, dalle colonne di questo settimanale (Vita Nuova - Trieste, n.d.r.), ha espresso con una invidiabile chiarezza, la propria autorevole opinione sull'argomento delle “Dichiarazioni anticipate di trattamento” (DAT). Con la sua intervista commentava i passi principali di una mozione che vorrebbe impegnare il sindaco di Trieste ad aprire un registro per dette dichiarazioni.

L'argomento delle DAT e, ancor più, del “testamento biologico” viene spesso presentato in modo particolarmente ambiguo: vengono utilizzate parole poco chiare per nascondere il vero argomento. Quella che viene nascosta, se non addirittura negata, è la parola “eutanasia” nel senso di morte procurata ad un paziente affetto da malattia più o meno grave.

Da medico vorrei evidenziare alcuni aspetti che verrebbero messi in discussione qualora venisse aperto un registro per le DAT.

Dovendo seguire quanto espresso nelle DAT il medico si trova a dover diventare mero esecutore della volontà altrui anche in contrasto con le proprie convinzioni, con il dettame della legge e del codice deontologico che vietano espressamente sia l'accanimento terapeutico che l'eutanasia. E sono proprio questi divieti che dovrebbe essere sufficienti a tranquillizzare gli animi di tutti.

Cosa si vuole richiedere con le DAT? La risposta si trova fra i numerosi “testamenti biologici” presenti in internet di persone che vogliono strumentalmente anticipare qualsiasi legge in materia dichiarando pubblicamente come vogliono essere trattati in caso di malattia che renda impossibile l'espressione delle loro volontà. Quello che più addolora e preoccupa è che le richieste vengano espresse anche da persone giovanissime, spesso ricalcando un testo comune che la dice lunga sulla “spontaneità” del gesto. Nelle dichiarazioni vengono rifiutati in modo confuso trattamenti quali “rianimazione cardiopolmonare”, “trattamenti con macchine”, dialisi, “nutrizione forzata”. Vengono citate patologie imprecise: “trauma cranico”, “malattie invalidanti”, “quadri irreversibili”, “fase terminale”. Qualcuno, prudenzialmente, cerca di specificare un periodo “di prova” che misura in “anni cinque”, al termine del quale chiede apertamente un trattamento “eutanasico” liberando i sanitari da qualsiasi responsabilità. E sono proprio da queste richieste che si dimostra il venir meno del rapporto, alleanza terapeutica, medico-paziente ridotto a mera esecuzione di una richiesta non condivisa. Tutti i trattamenti medici elencati devono essere contestualizzati alla singola persona che vive una particolare malattia: possono effettivamente risultare sproporzionati alla cura ed in tal caso potrebbero configurarsi come accanimento terapeutico, pratica che deve essere evitata, ma anche essere parte di una terapia che restituisce piena salute al paziente.

Se un paziente deve essere sottoposto ad un intervento chirurgico deve firmare, al termine di un esaustivo colloquio con un medico, un “consenso informato” nel quale dichiara di aver compreso la malattia da cui è affetto, il trattamento proposto, le possibili alternative, il rischio dell'intervento, il rischio che si corre nel non intervenire. Questa informazione manca nelle DAT: chi rilascia la dichiarazione è una persona sana, che chiede un trattamento per una serie di malattie che non necessariamente conosce a fondo, che non conosce perché non ne è affetta. La medicina ha fatto enormi progressi in tutti i campi e la concezione della propria vita può cambiare con il tempo così come il timore di una malattia può cambiare quando uno ne viene colpito: che valore potrà avere, ad esempio, fra venti anni una dichiarazione rilasciata oggi e “dimenticata” nel cassetto di un ufficio comunale?

La richiesta di un registro per le DAT fa parte di un lavoro culturale che cerca di introdurre l'eutanasia nella mentalità comune. C'è una mentalità che considera vita degna di essere vissuta solo quella della persona giovane e sana, dopo di che è meglio la morte.

Il futuro è facile da immaginare: stiamo già vedendo come vengano sottolineati positivamente i primi casi di eutanasia o come casi di suicidio vengano fatti passare come esempio estremo di libertà; toccherà successivamente ai primi esempi di eutanasia conseguenti alla DAT fino a che diventerà imperante una mentalità per cui in tanti si sentiranno in dovere di chiedere per sé l'eutanasia sia per non soffrire che per non pesare sui famigliari e sulla società anche in termini economici. Alla fine sarà qualcun altro che deciderà quali siano le “vite degne di essere vissute” ed agirà di conseguenza...


(Pubblicato su "Vita Nuova" settimanale della Diocesi di Trieste)


15 giugno 2012 Marco Gabrielli

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