Intervista a mons. Luigi Negri

Vescovo della Diocesi di San Marino - Montefeltro

Domenica 4 settembre il vescovo mons. Luigi Negri, ha celebrato una Santa Messa presso la Parrocchia di San Pio X in occasione del quarantesimo anniversario dall'ordinazione sacerdotale del parroco don Beniamino Bosello cui è legato da una lunga e profonda amicizia. Lo abbiamo raggiunto per rivolgergli alcune domande.

Mons. Luigi Negri a TriesteLei è vescovo della Diocesi di san Marino - Montefeltro. A fine giugno Papa Benedetto XVI ha visitato la sua Diocesi. Quale segno ha lasciato?

Ha lasciato un segno straordinario: il Papa ci ha portato Cristo. Ce lo ha portato nella sua testimonianza, nella sua proposta di un magistero profondo ed insieme molto elementare. Ce lo ha portato in quell'incredibile capacità di coinvolgimento con tutta la diocesi e con ciascuno. E' stata una fede riproposta “qui ed ora”, non il ricordo di una realtà tradizionale, che pure in questi luoghi ha inciso in un modo eccezionale. Il tema che avevo scelto per la visita pastorale “Signore, aiutaci a crescere nella fede” è stato realmente adempiuto in modo specifico. Nel grande incontro con i giovani nella piazza di Pennabilli, ad esempio, i giovani che stanno lentamente ritornando alla fede e alla Chiesa si sono visti proporre l'impegno di Gesù Cristo e la risposta alla Sua presenza come il grande compito della vita. Ma questo presente (questa è stata la genialità culturale ed educativa di Benedetto XVI) ha saputo farsi carico di una lettura della nostra tradizione e i passi sono stati di una grandissima intelligenza perché il Papa ha evocato la grande ricchezza della fede tradizionale dalla quale è partito un movimento di inculturazione, di creazione di un'etica e di una civiltà umane. E' stato acutissimo quando ha detto che il segno più impressionante della tradizione era la benevolenza su se stessi e verso gli altri: non il tentativo di cancellare livorosamente il proprio limite o il limite altrui, ma il portarlo; questo rende dignitoso anche il dolore, la sofferenza e il male. Ma il Papa ha aggiunto che questa ricchezza si è trasformata in povertà perché da un certo punto in poi anche in questi territori è prevalsa una mentalità opposta alla Chiesa e alla fede: il popolo, manipolato, ha cercato di porre la sua fiducia in altri valori. Ciò ha prodotto la povertà della persona e della società, la disumanizzazione della persona, delle famiglie e dei rapporti sociali. Si esce da questa crisi vivendo nel presente la tradizione, ma con tutta la consapevolezza di ciò che ha significato la tradizione.

Che segno ha lasciato la Giornata Mondiale della Gioventù?

Una capacità di accogliere i giovani così numerosi, provenienti da situazioni culturali, etniche, sociali, politiche diverse, ma unificati dal desiderio di incontrare veramente Cristo. Questo incontro il Papa lo ha reso possibile. Della GMG si parla perché c'è stato il Papa, perché il Papa si è coinvolto con i giovani come è capace di coinvolgersi e, soprattutto, è stato capace di parlare al loro cuore. Rimane, al termine di ogni GMG, il grande compito di attuare una traiettoria educativa che renda esperienza nel quotidiano quello che li è stato eccezionale, ma che rischia di essere poi archiviato come una cosa bella, ma finita. Questo apre nella vita della Chiesa di oggi il problema educativo, l'emergenza educativa, e il compito della responsabilità educativa. Io non sono assolutamente ottimista che la Chiesa di oggi sia in grado di caricarsi il compito educativo. Dopo l'incontro con i giovani a Pennabilli e dopo Madrid mi sono chiesto perché non fare, al centro della Chiesa, un punto di preoccupazione educativa dell'evangelizzazione dei giovani? Una realtà agile che possa muoversi in giro per il mondo, che possa incontrare queste esperienze, incrementare quelle positive, correggere quelle negative. Mi auguro che il Papa sia il promotore di un grande movimento di educazione dei giovani che poi sappia articolarsi ed essere integrato nei tentativi che si fanno nelle varie Diocesi. Se manca una promozione centrale, ogni volta si accendono grandi speranze a cui non segue una possibilità di esperienza quotidiana.

La lontananza dei giovani dalla Chiesa è legata alle pressioni mass-mediatiche per cui della Chiesa vengono messi in evidenza gli aspetti negativi di proibizione di quel permissivismo di carattere morale che ormai intossica la vita della società, accettato dalla società: penso alla “movida”, al modo di divertirsi che è assolutamente demenziale, ma che neanche la società adulta discute più. Ma la lontananza dalla Chiesa dei giovani è dovuta al fatto che le nostre proposte non sono affascinanti. Non può essere un Cristo oggetto dei sentimenti di una vaga spiritualità, tutta concentrata sulle nostre reazioni all'immagine di Cristo, a mobilitare un giovane, questo gnosticismo spiritualistico per cui Gesù Cristo serve a propiziare un certo qual benessere spirituale; né per altro può essere affascinante un generico impegno di carattere moralistico che prenda spunto da Cristo, ma poi che si esaurisca nel tentativo di risolvere tutti i problemi economici e sociali delle fasce anche più bisognose. Non sto dicendo che non sia giusto che ad un certo punto accada una certa affezione spirituale al Signore e certamente le opere ad impegno caritativo sono la conseguenza inevitabile, vedi San Giacomo, della fede, ma prima deve esserci l'esperienza della fede come incontro, come sequela, come educazione, come maturazione della propria personalità umana e cristiana. Se manca questo lo spiritualismo diventa soltanto una fruizione di beni di carattere spirituale anziché di carattere materiale e il moralismo non paga perché, come ha detto Papa Benedetto XVI nella “Caritas in Veritate”, la carità senza verità è un emotivismo che non lascia nessun segno.

Lei è a Trieste per festeggiare i 40 anni di ordinazione sacerdotale di don Beniamino Bosello. Un occasione per parlare delle vocazioni. Perché lei ha deciso di diventare sacerdote?

Io ho risposto ad una storia che si è andata specificando e precisandosi attraverso circostanze ed incontri. Nel grande incontro con don Giussani, alla fine degli anni del liceo avevo capito che il Signore mi chiamava ad una dedizione integrale a Lui e quindi sono stato uno fra i primi ad entrare in quello che veniva genericamente chiamato “Gruppo Adulto” che era la “genesi” di quello che poi sono diventati i “Memores Domini”. Poi sono accaduti fatti significativi nella mia vita, incontri, la percezione che andava radicalmente in crisi nella vita delle comunità il fascino di presenze educative significative che riproponessero l'invito di Cristo nella sua oggettività. Non vorrei dare la sensazione di aver intrapreso questo cammino per rispondere ai bisogni della Chiesa, meno che mai ai bisogni della società. Mi sono deciso a farmi prete perché ho capito che lì mi spingeva l'amore di Cristo. L'ipotesi più ragionevole mi è parsa il sacerdozio diocesano che è come una chiamata ad essere generatori ed educatori del popolo. Io diffido molto da vocazioni che mettano come motivazioni i problemi di carattere psico-affettivo o socio-politico. Mi hanno detto che un prete famoso nei mass-media ha raccontato che aveva la morosa, ma si è fatto prete perché ha deciso che bisogna voler bene alla gente. Io non so se questa sia la definizione di una vocazione cattolica, in particolare di una vocazione sacerdotale.

Nell'omelia della Messa con i seminaristi a Madrid, Papa Benedetto XVI ha detto loro di avanzare “fino al sacerdozio solo se sarete fermamente persuasi che Dio vi chiama ad essere suoi ministri e fermamente decisi ad esercitarlo obbedendo alle disposizioni della Chiesa”. Sembra di capire che ci sono dei sacerdoti che non sono ministri di Dio e non obbediscono alle disposizioni della Chiesa...

Il pericolo c'è! E' sotto gli occhi di tutti. Certamente la grave crisi morale che attraversa una certa parte dell'ecclesiasticità dice che c'è una dismissione della propria vocazione sacerdotale nell'esercizio concreto di essa di fronte alla comunità e alla società. Dialogando con il Santo Padre, ho detto che c'è una crisi più radicale ancora, di cui quella morale è espressione, ed è una crisi culturale. Il clero non è formato all'autentica cultura della fede perché ciò che garantisce l'autentica cultura è il Magistero e in particolare il Magistero del Vescovo di Roma. Oggi anche nei luoghi formativi dei sacerdoti o dei religiosi il Magistero è una possibilità, se non addirittura un punto che viene contestato. Non si costruisce un uomo di cultura cattolica se non nell'assimilazione del Magistero e nella rielaborazione personale che si deve fare del Magistero. Giovanni Paolo II ci ha detto che la cultura è un modo specifico di essere dell'uomo. Se non è la cultura della fede che si impara seguendo il Magistero del Papa è la cultura che si impara seguendo il magistero del Mondo. “Tertium non datur” dicevano i latini. O si è dentro il flusso della cultura della fede garantita dal riferimento al Magistero papale o si è dentro la cultura del Mondo. Io dico spesso ai miei fedeli: “Per voi vale di più la valutazione culturale e socio-politica di un editoriale di un giornale, che da noi sono spiccatamente laicisti, che non il Magistero del Papa e dei vescovi”. La crisi morale non si vince soltanto riproponendo un certo modo di essere e di agire, ma si incomincia una vera lotta alla mondanità facendo rivivere la cultura della fede.

Cosa pensa dell'attuale liturgia? Crede che la liturgia che oggi troviamo nelle Chiese possa far incontrare Gesù Cristo? C'è bisogno di una nuova “riforma”?

La liturgia è il punto più originale dell'esperienza della fede perché la liturgia è sacramento, è incontro con Cristo reale nell'Eucaristia e negli altri sacramenti fondamentali della vita cristiana. Quindi la liturgia salva l'ontologia della fede. La liturgia implica i primi passaggi di una cultura autentica della fede. E' fuori discussione che l'impegno profuso da Benedetto XVI sia perché la liturgia torni ad essere centrale così come voluta e proposta dalla Chiesa. Il problema è qui: la liturgia al centro della vita cristiana, ma la liturgia così come è autorevolmente proposta, continuamente approfondita dal Magistero papale. Negli anni di attuazione della riforma liturgica del Concilio Vaticano II c'è stato un succedersi di forme di sperimentalismo, di riduzione psico-sociologica dell'evento cristiano, tentativi di sociologizzare l'esperienza della fede e del sacramento. Per fortuna il Papa ha iniziato un cammino di riforma, di recupero della liturgia a quella normativa del Vaticano II in termini realmente fedeli allo spirito e alla lettera, alla ricchezza della tradizione anche pre-concliare, da cui il Motu Proprio sulla liberalizzazione della Messa secondo il Messale di San Pio V. Io ho detto al Papa: “Santità, sulla verità della liturgia si gioca la sopravvivenza della Chiesa nel III millennio”.

Il primo maggio Papa Giovanni Paolo II è stato beatificato. Come sintetizza, in poche parole, il suo pontificato?

Lo sintetizzo con una formula felicissima che mi scrisse qualche giorno dopo la sua morte l'attuale cardinale Dziwisz: “Ha insegnato ai cristiani ad essere cristiani e agli uomini ad essere uomini”. Io credo che questo sia il filo conduttore del pontificato di Giovanni Paolo II. Ha reso di nuovo possibile l'incontro fra Cristo e il cuore dell'uomo. Ai cristiani ha dovuto insegnare che Cristo è l'attesa del loro cuore, quindi ha insegnato ai cristiani ad essere uomini, certi dell'incontro con Cristo che rende umana la vita. Agli uomini di buona volontà ha insegnato che impegnarsi con la propria umanità vuol dire aprire la possibilità che il mistero di Dio venga ad incontrarci. In questo senso ha creato un popolo che va certamente al di là dei credenti. Anche qui tocca alla Chiesa riproporre continuamente l'immagine, l'esperienza di Giovanni Paolo II non come una cosa da archiviare sentimentalmente, ma da aver presente quotidianamente.

E come sintetizza il pontificato di Benedetto XVI?

Uno straordinario insegnamento. Ripropone elementi fondamentali della fede con grande profondità ed elementarità. Non è facile attuare pastoralmente nelle nostre diocesi questo Magistero: io sono all'inizio del tentativo di riforma della struttura pastorale della mia Diocesi perché la parola del Papa prenda sempre più decisamente presenza fra di noi. Il rischio di questo pontificato è che venga lasciato chiuso in sé nella realtà dell'insegnamento e dei grandi eventi che il Papa guida, ma che la vita normale della Chiesa non si lasci guidare dall'esperienza dell'insegnamento del Papa.


Marco Gabrielli
(per "Vita Nuova"
settimanale della diocesi di Trieste)

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